Nino (Antonio) Migliori, nato a Bologna nel 1926, è tra i più autorevoli e multiformi ricercatori italiani nel campo della fotografia. Inizia a fotografare nel 1948 oscillando fra immagini realiste distinte da un suo modo raffinato di racconto, e una felice ed eclettica sperimentazione sui materiali annoverabile tra i raggiungimenti più avanzati dell’informale europeo che trovano le radici nella storia della fotografia.
Nella sua produzione artistica si intrecciano fin dall’inizio diversi filoni di ricerca, ma è la sperimentazione il tratto fondamentale che caratterizza da sempre il suo operato.
Da fine anni Quaranta la sperimentazione declinata in Ossidazioni, Pirogrammi, Cellogrammi, Lucigrammi, Idrogrammi, tecniche inventate dall’autore, ma anche in Fotogrammi, Foro stenopeico, Clichè-verre, mutuati dalla storia dell’arte, s’identifica con una ben precisa posizione critica nei confronti dell’estetica idealista e del salonismo fotografico. La riflessione sulla storia e sulla teoria delle scritture fotografiche mette in luce aspetti trascurati o non previsti del linguaggio fotografico: la reazione dei materiali, il ruolo cosciente del caso, il ruolo del tempo, la presenza fisico-gestuale dell’artista. La sperimentazione è una pratica che apre uno spazio di ricerca e progettualità. L’autore si ricollega così alla lezione delle avanguardie storiche, ma, soprattutto, allo spirito ironico e dissacratorio dei futuristi. Anche se la sua ricerca procede poi in modo autonomo.
Le parallele ricerche, cosiddette serie “realiste”, Gente dell’Emilia, Gente del Sud, Gente del Nord, Gente del Delta raccontano un paese appena uscito dalla guerra. Dei primissimi anni cinquanta sono anche i Muri, una ricerca che prosegue fino agli anni Settanta e documenta l’interesse per la materia urbana che è anche segno e memoria. A questa ricerca si collega la serie dei manifesti strappati, che pone l’accento sul nuovo paesaggio urbano della comunicazione.
Nello stesso decennio insieme agli amici Tancredi, Emilio Vedova frequenta il salotto di Peggy Guggenheim a Venezia. È in questi incontri, come quelli a Bologna con autori come Vasco Bendini, Vittorio Mascalchi, Luciano Leonardi ed altri, che trova sostegno e affinità culturale.
Alla fine degli anni Cinquanta la fotografia amatoriale entra in una fase di crisi. Molti fotoamatori smettono di fotografare, altri intraprendono la strada della fotografia professionale. Segue un periodo di intensa riflessione che porta il fotografo su posizioni teoriche e pragmatiche che tuttora lo caratterizzano. Nella seconda metà degli anni Sessanta assume vieppiù spessore l’interesse per il sistema delle immagini e la comunicazione visiva nel suo insieme. E, nel 1968, torna sulla scena della cultura fotografica italiana, e internazionale, proponendo un progetto di estremo interesse: Antimemoria. La continuità tra espressività del gesto e azione performativa, tra sperimentazione e ricerca concettuale costituisce, da questo momento, una costante del suo lavoro. Sono fondamento del suo procedere: il rifiuto della fotografia a bassa tiratura e a alto prezzo, la critica nei confronti del fotografo-artista, la decostruzione dei luoghi comuni. Demitizza “il bello” e sottolinea la non meccanicità del documento fotografico: una posizione di forte impegno civile che assume una connotazione etica sia nella difesa del patrimonio fotografico contro la mercificazione sia nell’intensa attività didattica che dalla seconda metà degli anni Settanta affianca al fervore creativo.
Si è adoperato, come membro del Comitato Scientifico della sezione Fotografia del CSAC, che gli dedica nel 1977 la prima grande antologica, curata da Arturo Carlo Quintavalle, per favorire numerose donazioni all’Istituzione universitaria, a cui ha inoltre donato un cospicuo nucleo di sue opere.
Nell’agosto del 1979 nell’ambito delle manifestazioni di Venezia ’79 la Fotografia tiene il workshop “Esperimenti senza macchina fotografica”. Dall’anno precedente basa le sue lezioni al corso di Perfezionamento presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma sullo studio delle possibilità linguistiche del mezzo fotografico. Da questo momento la sperimentazione off-camera assume una connotazione peculiare che sviluppa con continuità nei laboratori di alfabetizzazione fotografica da lui ideati in scuole di vario ordine e grado e in istituzioni museali, fino al recentissimo laboratorio con i bimbi del Nido Mast (Bologna 2014 -2016).
I punti di riferimento che da sempre lo accompagnano sono Lucrezio, Leonardo e Duchamp: Leonardo per l’ininterrotta ricerca, per il desiderio di sperimentare, ad oltranza, per la consapevolezza che non si è mai arrivati; Duchamp per la necessità di rompere le regole, per il piacere del fare indipendentemente dal plauso, addirittura il gusto di progettare senza realizzare. Lucrezio perché nel De Rerum Natura tratta della bellezza e del suo inesorabile mutamento fino alla dissoluzione. Alla trasformazione della materia sottoposta al trascorrere del tempo è legato Herbarium (1974); ma la centralità del rapporto con la natura caratterizza il suo lungo percorso creativo e di ricerca.
Negli anni Settanta partecipa all’Opera dei Celebranti (1978-87), ideata dal critico Franco Solmi coadiuvato da Marilena Pasquali. I Celebranti rivendicano il diritto a ricreare miti e riti in nome di un sempre risorgente desiderio di meraviglia. Nel 1982 dà vita ad Abrecal – Gruppo Ricerca Percezione Globale (1982-1991), gruppo aperto nel quale confluiscono autori che utilizzano diverse forme di espressione e che si riallaccia alla poetica futurista perseguendo la rottura degli schemi precostituiti.
Nel decennio del cosiddetto “ritorno all’ordine” è significativa la ripresa con rinnovato entusiasmo della sperimentazione, che trova nei laboratori di alfabetizzazione fotografica, un importante momento di verifica.
Tra le molteplici ricerche avviate negli anni Ottanta si segnala l’innovativa indagine sulla polaroid, che diventa terreno di continua e multiforme ricerca personale. Migliori utilizza il materiale polaroid fin dagli anni Settanta negli Strappi (1976) e nella performance Controtempo blu (1977). Sperimenta poi le numerose possibilità di interpretazione nelle manipolazioni articolate in Polapressure e Polaori. Ricorre all’uso della macchina polaroid che permette un riscontro in tempo reale dei codici anche nelle coeve esperienze di alfabetizzazione fotografica.
Nelle Trasfigurazioni del 1998 rielabora in digitale immagini residuali ricavate dalle manipolazioni delle istantanee.
Nel 2000 gli viene conferito il Premio Guglielmo Marconi per la Fotografia e nel 2005 la cittadinanza onoraria di Bibbiena.
La progettualità, che sta alla base di ogni suo lavoro, e la necessità di praticare nuove strade per superare la ripetizione di uno stesso stilema lo portano a “inventare” strumenti non convenzionali come il caleidoscopio per ritratti Dreamhair (2005), il bastone per una lettura dal basso di New York (2005), il casco che sorregge due macchine fotografiche per un doppio scatto, anteriore e posteriore, utilizzato nell’inconsueta lettura della Via Emilia, Crossroaads. Passaggi e Topografie (2005).
Nell’ultimo decennio realizza lavori di grande immaginazione ed inventiva come la serie Lumen a “lume di candela” iniziata nel 2006 con Terra incognita. Lo zooforo del Battistero di Parma e che prosegue tutt’oggi con altri importanti capitoli.
Nel 2016 riceve la cittadinanza onoraria di Pieve di Cento.
Nel 2017 è eletto accademico d’onore dall’ Accademia Clementina. Nello stesso anno gli viene conferito il Premio Hemingway per la Fotografia e assegnato il Premio Alinovi Daolio.
Nel 2018 la Maison Européenne de la Photographie gli dedica una importante personale.
Il Comune di Bologna gli conferisce il Nettuno d’oro, massima onorificenza attribuita ai propri cittadini.